La gestione delle proteste è un passaggio delicato e cruciale per le autorità cinesi. La necessità di disporre di un centro finanziario globale potrebbe essere il fattore più importante che guiderà le loro scelte.
L’inizio di una serie di marce di protesta da parte della società civile di Hong Kong contro una proposta di legge che permetteva l’estradizione in Cina si è trasformata in una sfida totale dei manifestanti nei confronti del controllo di Pechino sulla città. Nonostante il governo locale abbia sospeso la proposta di legge a giugno e l’abbia dichiarata “morta” a luglio, le proteste sono continuate e sono sfociate in diversi episodi di violenza che hanno prodotto più di 1.000 arresti.
La criticità degli accadimenti di Hong Kong dipende dalla particolare natura di questa città, che per 156 anni è stata sotto il dominio del Regno Unito diventando uno dei principali centri finanziari mondiali. La restituzione alla Cina nel 1997 avvenne con la promessa di mantenere un “elevato grado di autonomia” per 50 anni – fino al 2047 – ovvero libertà di stampa e di parola, un libero mercato e un ordinamento giuridico di stampo britannico, secondo lo slogan “un paese, due sistemi”.
L’escalation delle tensioni solleva dunque la domanda su come possa essere affrontata questa sfida da parte del partito comunista cinese; la risposta avrà implicazioni dirette sul futuro di Hong Kong e sul suo ruolo di centro finanziario globale, ma potrebbe avere impatti significativi anche sulla stessa Cina. La recente promulgazione da parte del Presidente Trump di una legge che prevede sanzioni contro le autorità cinesi e di Hong Kong che violeranno i diritti umani ben rappresenta i rischi che potrebbero profilarsi qualora la crisi fosse gestita in modo troppo “brusco” da parte del partito comunista.
I leader cinesi sono perfettamente consapevoli che il successo della Cina come potenza globale è strettamente legato alla presenza nel paese di un centro finanziario moderno e sviluppato. La realtà è che ad oggi né Shanghai né Shenzhen possono giocare questo ruolo, come evidenziato dalla recente quotazione di Alibaba nella borsa di Hong Kong. A complicare la situazione c’è l’ostilità di larga parte della popolazione della città nei confronti della madrepatria.
Secondo gli analisti politici, il partito potrebbe seguire tre strade per risolvere la situazione:
1. la prima è riconoscere che Hong Kong è essenziale per il disegno geopolitico cinese e concedere maggiori libertà rispetto a quelle attuali. Il governo, però, ha sempre lasciato intendere di volere rafforzare il controllo centrale, il che rende questo scenario improbabile;
2. una seconda opzione è che il partito abbia già deciso di cambiare l’assetto istituzionale di Hong Kong per ridurne l’autonomia. Già ad oggi nessun ruolo di rilievo nelle istituzioni politiche ed economiche verrebbe assegnato agli oppositori del regime. La storia dimostra l’abilità dei leader cinesi nel gestire dossier scottanti, ad esempio il Tibet, attraverso trasferimenti di popolazione: in vent’anni, il mix demografico di Hong Kong potrebbe venire re-ingegnerizzato con afflussi di popolazione fedeli al governo centrale;
3. la terza opzione vede un incremento molto graduale del livello di controllo sulla città, accompagnato da una forte spinta allo sviluppo delle piazze finanziarie di Shanghai e Shenzhen. Al momento, però, è difficile immaginare che gli investitori internazionali possano considerare credibile un centro finanziario globale localizzato in un paese autoritario, che esercita ancora controlli sui flussi di capitale.
Considerando gli interessi politici ed economici coinvolti, lo scenario più probabile è che il governo cinese si orienti verso un maggior controllo della città nella sostanza prima che nella forma, e acceleri il processo di liberalizzazione delle piazze finanziarie di Shanghai e Shenzhen.